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LE FORMULE DI NAMAGIRI


"L'uomo che vide l'infinito", film tratto dalla biografia del matematico indiano Srinivasa Ramanujan "L'uomo che vide l'infinito. Vita breve di Srinivasa Ramanujan, genio della matematica". In una scena, il protagonista confessa al matematico inglese Godfrey Harold Hardy che le formule matematiche contenute nei suoi taccuini gli sono state rivelate direttamente dalla dea Namagiri e, in quanto rivelazioni di una dea, sono necessariamente esatte. [1]


Piergiorgio Odifreddi, matem-ateo divulgatore, ha ironizzato sul tema sottolineando che le apparizioni della Madonna si verificano nell’occidente cristiano, quelle di Namagiri nell’India induista e, caso strano, non accade mai il contrario. Senza raccogliere le provocazioni di Odifreddi, mi sono invece chiesto se sarebbe veramente possibile che un dio (una dea) possano rivelare veramente formule o proposizioni della matematica, ad esempio la tanto ricercata formula che permetta di snocciolare, uno dopo l’altro, magari in ordine crescente tutti i numeri primi. [2]


Nei miei ricordi, i miracoli hanno due caratteristiche: ne beneficiano i singoli e guariscono i malati (non vedenti che tornano a vedere, infermi che tornano a muoversi, ecc.). Tuttavia nei Vangeli si narra di almeno due miracoli di natura completamente diversa: il primo, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, è di natura collettiva e viola uno dei principi cardine dell'economia, la scarsità delle risorse. Il secondo, la trasformazione dell'acqua in vino alle nozze di Caana, aggiunge anche una dimensione sociale del tutto estranea a tutti gli altri. Allora, almeno in linea di principio, perché escludere la possibilità che una divinità, presa dal ghiribizzo, sveli ad un povero indiano formule e teoremi della Teoria dei Numeri? La risposta, nel film, la da proprio Hardy: come possiamo essere certi che queste formule siano vere? A un non vedente che sia tornata la vista si può chiedere cosa vede e verificare che corrisponda al vero (anche se mi sfugge come possa riconoscere un albero un uomo non avendo mai visto entrambi), mentre verificare l’esattezza di una formula matematica è tutt’altra questione.


Stabilire che una formula (una proposizione) è falsa è “piuttosto” facile: è sufficiente trovare un controesempio, vale a dire almeno un caso in cui il risultato fornito è sbagliato. Per Hardy e Ramanujan, vissuti ai primi del secolo scorso, anche questa ricerca non sarebbe stata banale; oggi i computer permettono di verificare l'efficacia di una formula in un numero sterminato di casi particolari sterminato. I libri di matematica divulgativa riportano casi di formule che, messe alla prova, si sono mostrate fallaci di solito già dopo pochi casi particolari. Ma soprattutto riportano casi di congetture che resistono brillantemente alla prova del computer e, tuttavia, non sono “certificate” vere dai matematici, e la ragione è comprensibile: qualsiasi numero finito di casi, per quanto grande, è praticamente nullo rispetto all’infinità dei casi possibili. Per stabilire la veridicità di una formula (proposizione) i matematici si affidano ad un altro metodo, anche questo sottolineato di continuo da Hardy nel film: la dimostrazione.


Ne discende che la nostra divinità dovrebbe svelare non solo la formula, ma anche la dimostrazione che quella formula giustifica. Il che comporta due problemi.

Il primo è che, seguendo Hardy, si ha l’impressione che, in matematica, “dimostrabilità” e “verità” coincidano; in altre parole che le formule vere siano tutte e solo quelle dimostrabili e viceversa. Purtroppo nel 1929 il logico austriaco Kurt Gödel ha dimostrato che, sotto opportune condizioni, ragionevolmente verificate per l’aritmetica, esistono proposizioni matematiche vere ma non dimostrabili. Più precisamente, per quei sistemi, dagli assiomi non è possibile dimostrare né che tali proposizioni siano vere, né che siano false e, per questo motivo, sono dette indecidibili. Confesso che questo tipo di proposizioni le troverei più rivelazioni del diavolo che di una divinità benevola ...


Il secondo è che le dimostrazioni, quelle lunghe e complicate catene di ragionamenti costruite ad hoc per convincervi della verità di una proposizione, quasi mai uniche, talvolta lacunose, sempre faticose da comprendere, sono per i comuni mortali, cose terrene insomma; la verità è divina, e dagli dei è percepita senza necessità di ulteriori spiegazioni. Per tutti, meno che per due persone. La prima è Paul Erdos, che ha ipotizzato l’esistenza del “Libro”, un libro contenente tutte le più dimostrazioni più belle della Matematica; egli era in grado di riconoscerle e, posto di fronte ad una di esse, soleva dire “questa viene direttamente dal Libro”.


La seconda è Platone. Se, al posto di Ramanujan, Hardy avesse incontrato Socrate, questo gli avrebbe certo ribaltato la domanda, chiedendogli: “Considerato che tu sembri di sapere molte cose, allora dimmi, dal momento che le dimostrazioni le ricerchi a posteriori, a quale facoltà devi la nascita di nuove proposizioni?” “All’intuizione!”, avrebbe risposto il matematico inglese, “Allora, ti prego, spiegami: cos’è questa cosa che tu chiami intuizione?”. E una risposta facile neppure Hardy la saprebbe dare. Anzi per dirla proprio con le parole di Socrate: «Intendo che vuoi dire, Menone; o in che disputazione tu mi metti! Vuoi dire che non può alcuno cercare ciò che sa, né ciò che non sa: perché, ciò che sa nol cercherebbe egli, perché lo sa; né ciò che non sa, perché non saprebbe pure quello ch'egli ha a cercare.» [3]

Di fronte alla scontata incapacità di rispondere di Menone, il filosofo ateniese formula la più meravigliosa tra le teorie platoniche: «E però l'anima, essendo ella immortale, rinata assai volte, e vedute le cose di quassù, di laggiù, tutto insomma, nulla è che non abbia appreso. Onde non è a far meraviglia se può rammentarsi, della virtù e dell'altre cose, ciò ch'ella già conosceva. Imperocché, essendo la natura tutta quanta imparentata seco medesima, e avendo appreso già ogni cosa l'anima, nulla toglie che rammentandosi alcuno (cioè, apprendendo, come dice la gente) una sola cosa, ritrovi tutte le altre, se valente egli è, e non si stanca del cercare, perché cercare e apprendere è veramente tutta una rimembranzae subito dopo Socrate mostra a Menone come anche uno schiavo completamente ignorante in geometria, se opportunamente interrogato, può risolvere il problema di trovare il lato di un quadrato di area doppia di uno quadrato dato, proprio perché ricorda quei ragionamenti che lo portano alla soluzione del problema, vale a dire la (una possibile) dimostrazione. E ciò dimostra che egli, lo schiavo, la dimostrazione la conosceva già, perché la sua anima ne era venuta a conoscenza durante la sua permanenza nell’Iperuranio.


Ne concludo che quella della dea Namagiri è forse una tra le tante risposte ad una domanda che chi pensa si pone da secoli. Forse neppure la più assurda, anzi, guardando il magnifico frammento dei celebri taccuini, potrebbe esser financo vera, ma questo è da dimostrare.


Nel prender congedo da te, caro lettore, mi preme riportare il precetto che Socrate pronuncia prima delle parole sopra citate: «Le dissero sacerdoti e sacerdotesse; di quelli ai quali stava a cuore saper rendere ragione delle cose del loro ministerio. E le cose ch'ei dissero, le dice anco Pindaro, e altri poeti divini e molti. Ma guarda se ti par che dicano vero. Dicono che la vita dell'uomo è immortale; e che ora ella perviene al termine suo, ch'è ciò che s'addimanda morte, e or ella rinasce; ma non va mai in niente; e però dicono che convien menare vita santissima.»


Buonanotte!

NOTE

[1] Da nessuna parte ho trovato che il matematico indiano abbia veramente proferito queste parole e ho il legittimo sospetto che l’aneddoto sia apocrifo. Che egli venerasse la dea Namagiri è certo, ma al punto da ritenere che questa gli rivelasse formule della teoria dei numeri è dubbioso. Il fatto è comunque irrilevante ai fini del seguito.


[2] Il logico di Cuneo si sbaglia, infatti le visioni di Namagiri sarebbero continuate anche durante il soggiorno inglese del matematico indiano. Casomai dunque le divinità scelgono le persone cui apparire, non il luogo. Il che è completamente comprensibile, poiché solo da chi le conosce sono riconoscibili. Io, ad esempio, non sarei mai in grado di sapere se mi apparisse la dea Namagiri.


[3] L’amico compagno di studi Gaetano un giorno mi disse: “Non sono mai riuscito a capire perché una cosa prima mi sembra incomprensibile, poi quando l’ho capita, mi sembra chiarissima.». In definitiva tutto qui è il problema della conoscenza.


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