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francescofst

IL DOLORE DI EINSTEIN (E DI GALILEO)

Niels Bohr, citato in A. Petersen, “The philosophy of Niels Bohr, The Bulletin of the Atomic Scientists, settembre 1963.


Il racconto dell’epico duello tra Niels Bohr e Albert Einstein agli albori della nascita della Meccanica Quantistica del secolo scorso dipinge il tedesco come un vecchietto un po’ rincoglionito asserragliato su posizioni tradizionaliste e il fisico danese come un brillante, giovane rampante che gettava le basi della nuova fisica.


Il tempo è galantuomo e l’attuale versione vede un cambiamento radicale tra le due posizioni, addirittura ribaltate [1]: gli storici riconosco il ruolo fondamentale ricoperto da Einstein laddove i contributi di Bohr sono passati decisamente in secondo piano. L’abusata “interpretazione di Copenaghen” è un’invenzione postuma priva di una visione condivisa da coloro che la dovrebbero sostenere e, per giunta, a rigori dovrebbe essere denominata “interpretazione di Copenaghen - Gottinga”, riconoscendo il preponderante contributo della meravigliosa fisica tedesca prenazista. Peggio, il “principio di complementarità”, celebrato dall’iscrizione «Contraria sunt complementa», è sparito dai libri di fisica (se mai vi è entrato).


Contraddicendo l’abusata citazione «Dio non gioca a dadi con l’universo», a partire da John Bell, molti commentatori riconoscono che Einstein non avrebbe avuto alcuna difficoltà a rinunciare al determinismo; casomai, a spaventarlo sarebbe stata la perdita della località. Ed arrivo al punto: assumendomene la responsabilità, con licenza poetica, voglio qui sostenere che la reale preoccupazione del grande fisico tedesco era ben altra che la perdita di questa o quella assunzione a priori sul funzionamento della Natura. Per farlo, devo però partire da lontano.


Galileo Galilei è stata la figura che ha dato una svolta decisiva al pensiero scientifico. Sebbene io abbia sposato l’idea che “la storia la fanno i popoli”, consapevole che già Francis Bacon aveva sollevato la necessità di una scienza sperimentale e che i tempi fossero maturi per la svolta, va riconosciuto che il fisico pisano ha saputo cavalcare l’onda e imprimerle una nuova direzione [2]. Orbene, da tempo sostengo che solo un toscano avrebbe potuto compiere questa rivoluzione, per due fatti fondamentali: è intrinseca nell’educazione, nella cultura toscana una certa, nutrita diffidenza nei confronti dell’autorità e una buona dose, forse eccessiva, di concretezza. Galileo non solo si libera dalle Sacre Scritture e dall’autorità della Chiesa, ma anche la polverosa eredità accademica fondata sugli scritti di Aristotele. Sono gli esperimenti, vale a dire i fatti, a stabilire l’ultima parola. Una teoria o produce predizioni corrette o, con buona pace del suo autore, chiunque lui sia, “grazie ed arrivederci”.


Con questi presupposti, la Fisica prende il volo. Non senza inciampi, ma è convinzione di ogni buon fisico che, col tempo, la verità trionferà; è questo il caso del flogisto e della teoria atomica della materia. Einstein stesso ha provato sulla propria pelle questa esperienza: le sue idee sulla relatività, inizialmente osteggiate, sono state, col tempo, accettate, sostenute e diffuse. [3]


La Meccanica Quantistica, con i suoi strani fenomeni, costituisce un attacco a questa visione austera, democratica, etica ma, allo stesso tempo, romantica della Fisica, perché apre la porta ad interpretazioni esoteriche, fumose, extra scientifiche insomma. Che si ritenevano cacciate per sempre. Il “principio di complementarità” ne costituisce già un piccolo assaggio. Questo, ipotizzo, era il (primo) vero timore di Einstein, il suo grido di dolore: vedere la Fisica con la “F” maiuscola andare alla deriva e diventare preda di pensatori che – anche grazie al contributo della necessaria conoscenza della matematica – erano stati banditi dal giardino della Fisica. Ed aveva ragione.


La pagina Interpretations of quantum mechanics di Wikipedia conta circa quattordici interpretazioni; la gemella italiana Interpretazione della meccanica quantistica ne elenca addirittura diciotto. Quante di queste siano “scientifiche” nel senso che sarebbe stato accettato da Galilei e Einstein lascio al lettore stabilirlo.


L’alternativa (cui io credo, beninteso) è persino peggiore. Il libro della Natura, secondo lo scienziato pisano, sarebbe scritto nel linguaggio della matematica. L’alternativa consiste nel sostenere che non esiste alcun libro. O, se esiste, rimane per noi inconoscibile. Il linguaggio della matematica non è “là fuori”, ma nelle nostre teste. La Fisica non “spiega” come funziona la Natura, ma è solo un modello matematico costruito per descriverne il funzionamento. Triste a dirsi, ma tra la “Meccanica Quantistica”, un modello economico e un modello del traffico veicolare non vi è – in linea di principio – differenza: tutti e tre si propongono di descrivere un aspetto percepito (misurato) della realtà. Certo, il primo lo fa meglio – molto meglio! – degli altri due, ma è anche vero che è più facile descrivere il comportamento di una particella inanimata che di un automobilista (magari, come il celebre protagonista dei monologhi di Gioele Dix, incazzato nero!). «Il nostro compito [dei fisici] non è penetrare l'essenza delle cose, di cui peraltro non conosciamo il significato, ma sviluppare concetti che ci permettano di parlare in modo fruttuoso dei fenomeni naturali.» ha affermato Niels Bohr, ed aveva ragione. Su questo si giocava la battaglia.

Una sorte simile era toccata, anni prima, alla geometria. Per secoli si era creduto che Euclide avesse svelato tutti i segreti dello spazio, quello in cui siamo immersi, ma nel diciottesimo secolo un russo ed un ungherese avevano introdotto due nuovi tipi di geometria. Adesso vi erano tre modelli equivalenti dello spazio; quale quello vero? Peggio ancora, Hilbert con i suoi tavoli, sedie e boccali di birra aveva dimostrato che la geometria non parlava neppure dello spazio; è una mera costruzione formale, applicabile allo spazio, ma non è lo spazio. E nella matematica fu il caos (non quello deterministico!): adesso ognuno si sentiva libero di costruire una matematica a proprio uso e consumo! Per la Fisica questo non doveva accadere. I fisici lo avevano sempre saputo che la matematica era una costruzione vuota, ma la Fisica no, la Fisica era un’altra cosa, era la struttura sulla quale l’Essere Supremo (Dio, il Grande Vecchio, …) ha costruito l’Universo. Con la Meccanica Quantistica, il rapporto si ribalta: la Fisica diventa una delle tante branche della matematica applicata.

Io arrivo persino a pensare che il problema delle interpretazioni della Meccanica Quantistica è mal posto perché non c’è niente da interpretare. Il formalismo matematico è, di per sé, necessario e sufficiente alla miglior descrizione del Reale. L’interpretazione è come il colore sulla parete di casa: forse la rende più gradevole alla vista, ma sotto il profilo strutturale è del tutto inutile. [4]

Se mi è concesso il paragone con il più celebre tra i duelli della storia, quello tra Achille e Ettore, a Niels Bohr spetta il ruolo del primo, mentre a Albert Einstein il secondo. Achille vince perché, piaccia o non piaccia, questo è il suo destino. Bohr vince perché a lui il Fato aveva assegnato il più importante tra i compiti: liberare la Fisica del suo più ingombrante, pesante fardello metafisico: che parlasse della Natura. Tuttavia, la nostra simpatia va ad Ettore, perché è un uomo come noi: ha una moglie, un figlio e gli piace credere che l’esistenza è dotata di senso.

NOTE

[1]    uno per tutti, cito li testo “La fisica dei quanti sfida la realtà. Einstein aveva ragione ma Bohr vinse la partita”, di Roger G. Newton, Dedalo Edizioni – Bari 2011.

[2]    a tale proposito, dispiace che sia trascurata la figura di Andrea Vesalio, iniziatore della moderna anatomia, che, come Galileo, fu molto attivo a Padova nel 1500 ed aveva un approccio alla scienza del tutto analogo a quello dello scienziato toscano.

[3]    un caso poco citato è la disputa tra Eddington e Chandrasekhar (Chandrasekhar–Eddington dispute - Wikipedia). Non baratterei la mia con la fama del fisico inglese per la macchia che la seconda si porta dietro.

[4]    A sostegno di questa tesi, cito un caso tratto dalla meccanica classica. Nel corso di Fisica 1, lo studente è introdotto al concetto di “Forza”. Di solito, si ricorre ad esempi di natura antropomorfa, quali tirare o spingere una porta per aprirlo. Che la porta (se preferite, la Natura) sia a conoscenza che, quando la apro, io sto esercitando su di lei una “forza” è questionabile. Nel corso di Meccanica Razionale tali nozioni antropomorfe scompaiono completamente e quanto rimane è un ente squisitamente matematico, una funzione vettoriale che dipende – nel caso più generale - dal punto in esame, dalla velocità e dal tempo. Di come questa funzione si costruisca a partire dal mondo là fuori, al Meccanico Razionale non interessa: dammi la forza e ti dirò il moto. Questo è tutto.

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